Il 2020 è un anno davvero particolare: il Covid-19, e quanto l’ha reso – e lo fa essere tuttora – un fattore con cui fare i conti prima di progettare e organizzare eventi o proporsi progetti personali, continua a influenzare le nostre comunità.
Il fiume Po non accoglie pertanto la tradizionale processione della Madonna di Brancere, da anni un classico appuntamento ferragostano per gli abitanti della bassa padana, vissuto con grande partecipazione.
Ho scoperto la semplice bellezza di questa consuetudine popolare solo qualche anno fa, non l’avevo mai presa in considerazione prima. Superata l’iniziale diffidenza, con mia grande sorpresa, conoscendomi, l’ho trovata davvero molto coinvolgente per il sentimento di autenticità che ho percepito. Ne abbiamo proprio un gran bisogno in un periodo come quello che stiamo vivendo.
Ripropongo le riflessioni, suggellate con immagini, di quella mia “prima volta”.
Brancere è una frazione (Comune di Stagno Lombardo) nei pressi di Cremona, tipico esempio di piccolo agglomerato della bassa padana ai margini del Po.
Argini, golene, campi di mais, prati rasati per il recente taglio dell’erba destinata a fieno: in estate, tutto concorre a far rivivere con la mente alcune sequenze dei film di Peppone e Don Camillo, come le loro gare in bicicletta sugli argini del fiume, appunto, e proprio nella stagione estiva.
immagine dal web
Il 15 agosto, questo paesino diventa un punto d’incontro per numerose persone in occasione di un evento molto sentito: la processione della Madonna di Brancere “regina e patrona del Po”, che si svolge ogni anno sulle rive del Grande Fiume e sul fiume stesso.
La tradizione risale al 1978, quando l’allora Parroco di Brancere, con la collaborazione di alcuni amici, decise di dare vita a una festa mariana in riva al Po per ricordare la terribile inondazione del 1756 che travolse le case, una chiesetta, un piccolo cimitero. Da quella prima edizione, la cerimonia è diventata un classico appuntamento di mezza estate per cremonesi, abitanti del luogo, dei comuni rivieraschi del piacentino e del parmense.
Quest’anno mi sono aggregata, per la prima volta.
Io, nata e vissuta a Cremona praticamente sempre, l’ho ripetutamente snobbato: troppa esteriorità per una cattolica praticante, ma poco amante di processioni, celebrazioni eccessivamente solenni, e più incline alla meditazione, alla lettura e all’ascolto della parola. Ma ero incuriosita. Confesso che mi aspettavo di trovare gruppi di donne anziane con rosario in mano, un’atmosfera pittoresca e folcloristica, molto rumore.
Ebbene, ho dovuto rivedere radicalmente il mio giudizio. La celebrazione è stata davvero bella. Ero sicura che avrei trovato parecchie persone, ma sono stata positivamente colpita dalla presenza di numerosi giovani e dal raccoglimento di tutti molto coinvolgente e per nulla di circostanza.
La statua in legno della Madonna è arrivata dal fiume a bordo della barca della Protezione Civile di cui è la patrona. Dopo la piena del 2000, infatti, è diventata la protettrice dei volontari di questo Corpo, gli “angeli del Po”, che in quella circostanza si sono prodigati per mettere in salvo abitanti e bestiame dei paesini rivieraschi.
Una volta sulla terra ferma, portata a spalla dai “pescatori scalzi” e accompagnata dalla banda, ha raggiunto la cosiddetta “cattedrale dei pioppi” dove si è celebrata la Santa Messa.
(foto personale)
(foto personale)
(foto personale)
Questo, per me, il momento più significativo. Il silenzio con cui abbiamo seguito la funzione era interrotto solo dal fruscio delle foglie degli alberi al passaggio di una leggera brezza ristoratrice nel caldo pomeriggio di ferragosto. Perché le sue parole potessero essere ascoltate anche da chi era più lontano, il sacerdote si è servito di un microfono con uno straordinario effetto eco che, suono ondulante, sorvolava teste, prati, acqua.
Attorno a noi, un campo di mais da un lato, l’argine del fiume dall’altro e in me la piacevole sensazione di una profonda comunione con persone e natura.
(foto personale)
Al termine dalla liturgia, la statua della Madonna, seguita dalla processione, è stata di nuovo trasportata verso il fiume e fatta scendere nel Po.
(foto personale)
(foto personale)
(foto personale)
A questo punto la cerimonia è diventata ancora più suggestiva. Il natante che ospitava la Madonnina era scortato da una piccola flotta d’imbarcazioni. Un autentico quadro, grazie anche ai riflessi del sole sull’acqua e ai conseguenti giochi di luce.
(foto personale)
(foto personale)
(foto personale)
Il corteo fluviale si è fermato in un punto preciso del Po. Dalla barca è stata gettata una corona di fiori dove si presume sorgessero l’antica chiesa di Brancere, il cimitero e le povere abitazioni occupate da contadini, pescatori e boscaioli, tutti travolti dall’inondazione del 1756.
(foto personale)
(foto personale)
A sancire la solennità del momento e della commemorazione, il Silenzio suonato da un trombettista e i vogatori con i remi alzati verticalmente per rendere onore a quella gente e a quanti hanno perso la vita nel Grande Fiume.
(foto personale)
La sera, sono rientrata a casa decisamente soddisfatta, serena, contenta di avere rivalutato il valore delle feste popolari con le loro tradizioni.
È stata necessaria un’accurata preparazione per la cerimonia, ma non ho percepito alcuna sensazione di artefatto: la scena profumava di spontaneità e semplicità ed esprimeva una fede sincera e genuina.
Mi riaffaccio in questo spazio dopo una lunghissima assenza.
Passata indenne al Covid, non senza qualche perdita tra amici cari e conoscenti cui mi legava affetto sincero, il periodo è trascorso tra lavoro a casa, letture e recupero di alcuni scritti che pubblico, uno in seconda edizione, l’altro in prima. Qualcuno di voi già ne ha letto alcune parti proposte tempo fa su queste pagine virtuali.
Il romanzo 𝗟𝗲 𝗿𝗮𝗱𝗶𝗰𝗶 𝗻𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗻𝗶𝗺𝗮 è il frutto di una collaborazione tra voce narrante e parola scritta, la prova che è possibile trasformare un’occasione in opportunità.
Tutto è iniziato mentre sfogliavo le pagine di alcune memorie e ascoltavo episodi di vita di un ragazzo del ‘26 dalla sua stessa voce, Guido, oggi ultranovantenne, che ha aderito con entusiasmo al progetto: far confluire le sue riflessioni, sparse qua e là, in una narrazione strutturata.
Non si tratta di una biografia nel senso classico del termine né di un’autobiografia benché l’io narrante sia appunto Guido. Il testo si articola in un susseguirsi di flash dei momenti più intensi di un percorso esistenziale.
Dapprima la comunità di una cascina della campagna cremonese con abitudini e tradizioni lontane nel tempo e pure così attuali nei valori fondanti, affetto autentico, profondo rispetto, amicizia vera, fiducia, disponibilità verso gli altri. Una vita non certo ricca né facile e tuttavia serena.
Il desiderio di affrancarsi dalla condizione di povertà diventa per Guido un’esigenza. La cultura gli spalanca le finestre di nuove prospettive. Negli anni ‘40, studiare è davvero un privilegio per il figlio di un contadino. All’epoca Guido è adolescente; per tradizione, al termine delle scuole elementari, avrebbe dovuto continuare l’attività del padre. Una felice circostanza, assolutamente improvvisa e inattesa, gli regala la chance di abbandonare la terra, frequentare le scuole superiori e conseguire il diploma. Da lì, una vita in graduale ascesa non senza difficoltà superate grazie a determinazione, fede viva e alcuni eventi favorevoli.
Le esperienze della vita privata di Guido s’intrecciano con le vicissitudini familiari e incrociano la Storia: il ventennio fascista, la guerra, la Resistenza partigiana cui aderisce con passione ed entusiasmo. Dal carattere forte e risoluto, ha precise convinzioni animate da un forte senso di giustizia e libertà che lo impegna anche nelle lotte sindacali a favore della classe bracciantile e operaia.
Non scorderà mai dove tutto è iniziato: tra l’odore di stalla, aratri e zolle. Le sue radici resteranno sempre nell’anima.
Una storia torbida, un intrigo dai contorni misteriosi: a distanza di oltre cent’anni, recupero un fatto di cronaca nera, realmente accaduto e documentato, un 𝘤𝘰𝘭𝘥 𝘤𝘢𝘴𝘦 cremonese, proponendone la rivisitazione romanzata allo scopo d’insinuare dubbi e ipotesi interpretative.
Sullo sfondo, la Cremona del 1916, in particolare i quartieri popolani della città, tra bordelli e caserme. Il ceto borghese dell’epoca e gli ambienti “per bene” osservano, apparentemente distanti e non coinvolti. Quel mondo sarà davvero così estraneo a vite complicate, cosi lontano da esistenze giudicate scabrose? L’essenziale è, comunque, salvaguardare l’immagine e il buon nome.
«Spazzola con cura i capelli biondo cenere, quasi color tortora in alcuni punti, motivo per cui tutti la chiamano “la Tortorella”. Non è bella Ester, è piacente; non più giovane, attrae ciononostante ancora gli uomini. Il nasino all’insù le conferisce un’aria birichina, il fisico non alto ma formoso e le labbra pronunciate sono un richiamo.»
È a causa di questi uomini che la Tortorella spiccherà il volo.
L’Associazione Passione per Cremona, fondata con alcuni amici e attiva da mesi sul territorio cremonese, non manca all’appuntamento con la Storia, alla Giornata della Memoria, al ricordo della Shoah.
Sostiene pertanto lo spettacolo commemorativo per voce narrante e quartetto d’archi Il violino sopravvissuto di e con l’autore e attore cremonese Massimiliano Pegorini.
Note e parole come testimonianza di un dramma, uno strumento a corde sopravvive a chi lo possedeva.
Eva Maria riceve in dono dal padre un violino, ama la musica e vorrebbe intraprendere la carriera di violinista. Con Enzo, il fratello, si esercita a casa. Nel 1938, ha diciassette anni e inciampa nelle leggi razziali: addio scuola, niente più musica. Nel ‘43, la famiglia Levy fugge da Torino, progetta di uscire dall’Italia e rifugiarsi a Londra, ma tutti i membri sono arrestati nei pressi di Varese. Il binario 21 li aspetta, il treno per Auschwitz li accoglie, il campo li riceve, il violino con loro. Vengono però separati: il padre già graziato in Italia da un capotreno, la madre subito eliminata all’arrivo al lager, Eva e il suo violino dirottati a Birkenau, dove la ragazza è inserita in un’orchestra per il divertimento dei LagerKommandant e subordinati, del personale delle SS, di qualche kapò. Il fratello finisce a Monowitz.
Lo strumento si rompe, Eva è declassata a detenuta comune e bruciata nel ‘44. Non serve più.
Enzo si salva e riesce a recuperare il violino della sorella. Arrivato a Torino, lo affida a un liutaio per farlo riparare. Lo strumento però resta lì, per anni. Enzo non si sarebbe mai presentato a ritiralo, è dato suicida nel 1958. Nel 2014, Carlo Alberto Carutti, collezionista milanese allora novantatreenne, lo salva dall’oblio cui sarebbe stato destinato. Un antiquario di Torino gli invia la segnalazione di un vecchio strumento, lo acquista, lo fa restaurare e lo dà in concessione al Museo Civico di Cremona.
Questo violino è prezioso per quanto rappresenta e la sorta di reliquia che contiene: un cartiglio con la scritta Der musik macht frei (la musica rende liberi), un rigo musicale, la stella giudaica intarsiata sul fondo, il numero di matricola 168007, che permette a Carlo Carutti di risalire a Enzo Levy Segre “deportato ad Auschwitz”, si legge sul documento ritrovato, e all’intera storia. Nella custodia, inoltre, un diapason fatto con il bossolo di una munizione.
È il violino della Shoah, è Il violino sopravvissuto del quale Massimiliano Pegorini, nell’omonimo spettacolo, narra l’esperienza che lo rende vivo ancora oggi. Il quartetto d’archi Morassi rievoca melodie.
La locandina dello spettacolo ha suscitato qualche perplessità. Confesso che anch’io, la prima volta, ho osservato provando sgomento.
Può sembrare paradossale, eppure la scelta estetica è ben studiata. La svastica spaventa, urta, colpisce, ripugna, ed è questa la sua funzione.Deve provocare sentimenti negativi: ecco perché campeggia là, in mezzo. Suscitasse indifferenza, la grafica sarebbe infelice e il messaggio inficiato.
L’olocausto deve generare ribrezzo, schifo, nausea, disgusto, reazioni che la melodia triste di un violino può solo accentuare nell’immagine di note che salgono avvolte nel buio dello sterminio.
Scomodo Edmund Burke e il suo Philosophical Enquiry into the origin of our ideas of the Sublime and the Beautiful (1756) (Inchiesta filosofica sul Bello e il Sublime); disturbo Kant e le sue Osservazioni sul sentimento del Bello e del Sublime (1764), nonché La critica del giudizio (1790).
Accanto e opposto al pleasure (piacere positivo) esiste il delight (piacere negativo), attrazione verso un oggetto che si vorrebbe nel contempo respingere poiché se ne avverte il pericolo.
Il Sublime è un coinvolgimento emotivo intenso provocato da qualcosa di gradevole, ma anche da un’immagine terribile, che toglie il fiato, che respingiamo come orrenda.
La svastica del Violino Sopravvissuto provoca terrore, repulsione e riflette il giudizio negativo di chi osserva.
Venerdì 8 e sabato 9 novembre, Cremona ha avuto l’onore di ospitare un convegno di grande prestigio organizzato dalla Camera Penale di Cremona-Crema. Si è svolto in due momenti: venerdì pomeriggio, la sessione è stata dedicata a cittadini e avvocati, sabato mattina agli studenti delle scuole superiori.
La nostra Associazione Passione per Cremona ha accettato con entusiasmo l’invito a collaborare al progetto. È stata un’occasione importante per offrire la consulenza richiesta dall’organizzazione, desiderosa di corredare con riferimenti letterari gli interventi degli esperti sul tema dei diritti fondamentali dell’uomo.
Relatori di prestigio. Accanto all’avvocato Alessio Romanelli del Foro di Cremona, presidente della Camera Penale di Cremona-Crema, erano presenti gli avvocati: Guido Savio del Foro di Torino, socio dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione, autore di pubblicazioni sulla rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza” del cui comitato di redazione è inoltre membro; Valerio Spigarelli, del Foro di Roma, dal 2010 al 2014 presidente nazionale dell’Unione delle Camere Penali, ora docente di Procedura Penale alla ‘Scuola di specializzazione per le professioni legali’ presso l’Università La Sapienza; la dott.ssa Paola Scevi, docente di Diritto Penale e direttrice del master in Diritto dell’immigrazione presso l’Università di Bergamo, la prima a istituire in Italia un corso di laurea in questa disciplina presso l’Università di Piacenza. Il giovane avvocato Hilarry Sedu, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Napoli, ha parlato agli studenti nella sessione del sabato mattina.
Come associazione di cittadinanza attiva per Cremona, è stato davvero un onore poter fornire un contributo a una serie d’interventi di alto profilo e levatura internazionale.
L’avvocato tunisino Abdelaziz Essid ha conferito al convegno una portata ampia, cosmopolita e un livello di grande pregio. Presidente dell’Ordine degli avvocati tunisini, assieme ad altri membri del “Quartetto per il dialogo nazonale in Tunisia”, nel 2015 è stato insignito del premio Nobel per la Pace, motivazione: «il contributo decisivo nella costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia alla luce della rivoluzione dei Gelsomini del 2011. Il Quartetto è riuscito a creare un processo politico pacifico in un momento in cui la Tunisia era sull’orlo della guerra civile. E così ha messo il paese nelle condizioni di stabilire una costituzione e un sistema di governo che garantisca i diritti fondamentali a tutto il popolo tunisino indipendentemente dal genere, dal credo politico o dalla fede». Componente di una delle quattro organizzazioni del Quartetto (Ordine nazionale degli avvocati di Tunisia, Unione generale tunisina del lavoro, Confederazione dell’industria, del commercio e dell’artigianato, Lega tunisina per i diritti dell’uomo), Abdelaziz Essid è stato fautore della transizione democratica del suo paese che ha messo fine a oltre vent’anni di potere di Ben Alì. La ratifica della nuova Costituzione tunisina nel gennaio 2014 è stato un risultato importantissimo.
Abdelaziz Essid – convegno Sala Maffei, Cremona 8-9 novembre 2019
Nel suo intervento al convegno, ha ricordato i terribili giorni del 2011:
Le dichiarazioni di M. Essid di fronte a una platea numerosa fanno riflettere molto. La sua comunicativa è inoltre contagiosa, le sue parole si depositano in un silenzio di ammirazione.
Il nostro contributo, come Associazione di cittadinanza attiva, è consistito nel fornire un supporto letterario ai temi trattati. Non è stato semplice scegliere testi dedicati ai diritti fondamentali dell’uomo poiché la letteratura ne ha regalati tanti nell’arco dei secoli, centrati sul tema della tolleranza, sulla diversità concepita come una ricchezza culturale e sociale, anche sull’immigrazione. Abbiamo optato per un brano tratto da Il razzismo spiegato a mia figlia di Ben Jelloun, libro e autore noti a tutti.
Scrittore francofono, nato a Fès, vissuto in seguito a Tangeri e Rabat dove ha studiato filosofia, in seguito emigrato in Francia, a Parigi, città in cui vive tuttora, Ben Jelloun è attualmente lo scrittore francese più tradotto al mondo.
Il libro è stato pubblicato nel 1997 e ha quindi oggi ventidue anni, ma non è affatto datato poiché offre riflessioni essenziali e fondamentali sulla condizione umana e va ben oltre la cronaca e il contingente.
In estrema sintesi, il libro propone un dialogo tra padre e figlia, lo stesso Ben Jelloun e la figlia Mérième. Come l’autore spiega nell’introduzione, ha pensato di scrivere questo libro dopo avere partecipato, il 22 febbraio 1997, a una manifestazione contro la legge Debré, discriminatoria nei confronti degli stranieri residenti in Francia. Sua figlia Mérième, che allora aveva dieci anni, era con lui. Bambina molto intelligente e curiosa, ha iniziato a porgli domande non solo sul razzismo, ma anche sul pregiudizio contro gli stranieri e i cosiddetti “diversi”, la discriminazione in nome di una presunta superiorità, su tolleranza e intolleranza, accettazione, convivenza civile, su valori quindi che non hanno tempo.
Le spiega che il razzismo non riguarda solo i bianchi contro i neri, ma anche il contrario, i neri verso i bianchi, gli ebrei verso gli arabi, gli arabi verso gli ebrei: l’intolleranza, che sfocia nella xenofobia, può esplodere anche in chi ne è stato vittima. «Il fatto di avere subito un’ingiustizia non rende per forza giusti». Egoismo, paura, vigliaccheria, ignoranza sono le cause principali di un atteggiamento di disconoscimento dell’altro che Ben Jelloun definisce «nonsenso».
Il razzismo spiegato a mia figlia è stato rieditato nel 2010 con l’aggiunta di una splendida Prefazione, che contiene una lettera alla figlia Mérième ormai cresciuta, e nel 2018 in un’edizione ancora più completa.
Al convegno, abbiamo proposto due parti brevi tratte dalla prima e della seconda edizione in cui si riflette sul rispetto, con pensieri di grandissima attualità, lettura consegnata alla voce dell’attore cremonese Massimiliano Pegorini accompagnato al violino da Angela Alessi, in un’esibizione di alto livello.
A seguire, una mia riflessione personale, che si sviluppa in immagini e flash (già nota a voi amiche e amici di questo blog ma non alla platea in sala) su come i bambini siano in grado di vincere gli stereotipi e superare le sovrastrutture mentali e sociali poiché ne sono privi. L’auspicio è che possano vivere in futuro, da adulti, in un clima migliore del nostro attuale.